Certo non è lo stesso mare

reggiolungomare 500di Ariella Lea Heemanti - Alle otto del mattino sul lungomare c'è odore forte di sale e di iodio, che si inspira e si respira.

La luce avanza, si riflette sull'acqua, forma bagliori.

I gabbiani volteggiano e stridono.

L'uomo scuro di pelle, dall'accento asiatico, o chissà, arabo, o latinoamericano, spazza l'ingresso di un ristorante e sorride se gli si mostra il cumulo di bottiglie di plastica e di cartacce abbandonate lì a fianco, in una caletta. Si stringe nelle spalle se gli si chiede, con gentilezza, se per caso costa troppo allo stesso ristorante prendere l'iniziativa di pulire anche quel pezzetto di spiaggia, così bello ma così sporco, dato che nessun altro lo fa, neanche, a quanto pare, il comune.

Annuisce e dice, con dolcezza: «Avete ragione».

Mucchi di sporcizia giacciono anche fuori dai gazebo.

Le macchine degli addetti alla pulizia dei luoghi passano e aspirano solo quello che capita sotto le spazzole.

Sotto gli occhi rimangono carte e bicchieri di plastica che rotolano.

Li si raccoglie a uno a uno, se il vento non li fa volare via prima, e capita persino di rincorrerli; ma i cestini di ferro sono rivestiti di sacchi di plastica di un colore opaco che ne vanificano la profondità e si gonfiano anch'essi, col vento, come a rigurgitare prima o poi fuori tutto ciò che vi si butta.

C'è l'uomo che passa col cane e guarda.

Il ragazzo che corre per tenersi in forma.

La famiglia di padre, madre e figlio che parla uno spagnolo del Sud America e si ferma, macchina fotografica al collo, proprio davanti alla caletta piena di bottiglie di plastica.

Viene l'idea di chiedere al figlio di scavalcare e andare giù e raccoglierle, lui che non indossa una gonna un po' stretta che renderebbe difficile risalire.

Ma il figlio, come la madre, come il padre, ha lo sguardo fisso sull'altra parte dello Stretto.

Tutti e tre sono come incantati.

Le bottiglie di plastica, e in fondo è un bene, neanche le vedono.

C'è un palco davanti alla statua di Athena, che il sindaco Italo Falcomatà volle rivolta non verso il mare, ma verso l'interno della città, dove sono – egli spiegò- i suoi veri nemici.

Oh sì, e quante cose, però, persino impensate fra tutte quelle sapute e risapute, sono venute fuori negli ultimi tempi, di quei nemici di sempre della città, stanziati con determinazione e pericolosità dentro di essa senza voler togliere le mani via da lei, e il peso della loro oppressione dalla sua anima stessa.

I nemici della città, colleghi gli uni degli altri, che si alternano, da un anno all'altro, nei palazzi del potere miserabile e mafioso che essi si spartiscono e spartiscono, dovendone dare conto alla Santa, la vera padrona della città, mai veramente sconfessata e sconfitta, in nessuna primavera, mentre la statua di Athena Promachos, la dea combattente, si erge là come un orpello che dà le spalle al mare, davanti a cui frotte di turisti dalla pelle arrossata arrivano nell'Arena intitolata nell'era Scopelliti al capopopolo dei boia chi molla Ciccio Franco, a fare e farsi fare foto con l'Iphone e lo smartphone, senza magari sapere niente, capire niente di che cosa rappresenti quella statua, e quel Vittorio Emanuele III a cui, a nome della città, è dedicato là il cippo di marmo edificato nel 1932, quando già il monarca aveva consegnato l'Italia nelle mani di colui che minacciava di fare e fece del Parlamento "un bivacco di manipoli"; quando già gli squadristi della morte avevano sequestrato e assassinato il deputato Giacomo Matteotti, nell'approssimarsi delle leggi razziali che, per ignominia, il re firmò tradendo non solo i suoi sudditi ebrei, ma lo stesso Statuto Albertino e il principio di "Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia sabauda" in esso contenuto, correndo poi, cinque anni dopo, in macchina con Badoglio verso Brindisi, a pretendere di difendere il grottesco, tragico titolo di "imperatore d'Etiopia e re d'Albania", mentre la patria veniva abbandonata "alla tedesca rabbia", come è scritto su una lapide nel porto di Ortona, e non lontano, a Cefalonia, a tre miglia da Itaca, dopo sei giorni di combattimento e di resistenza, il 21 settembre 1943 i soldati e gli ufficiali italiani, lasciati soli, furono costretti ad arrendersi venendo poi trucidati.

Duecento sessanta furono gli ufficiali italiani fucilati al faro di Phanos e fatti poi affondare, per mezzo di una zavorra di pietre, sulla zattera spinta al largo con i loro corpi.

Quasi novemila furono i soldati della divisione Acqui fatti perire per mano tedesca.

Decine e decine gli ufficiali e i soldati già feriti e ricoverati che vennero trascinati fuori dagli ospedali e massacrati dai militari della Wehrmacht.

E se si pensa a loro su questo lungomare, a come resistettero e morirono, al cippo e alla statua a loro estranei alle spalle di quello stesso favoloso mare, a questa memoria falsata della città, viene in mente, si alza dal mare e dal sale, la figura della madre di uno di quei soldati, vestita di lutto e di un dolore impietrito come le pietre servite da zavorra per l'inabissamento in mare di quegli uomini, di quei ragazzi, che andò da Simon Wiesenthal e gli chiese:

«Signor Wiesenthal, lei cerca giustizia solo per gli ebrei?».

«Certo che no, signora, mi dica, mi racconti».

E la donna gli raccontò di quei novemila soldati sterminati dalla mano e dall'orgoglio tedeschi, dalla punizione più spietata,

e però anche dalla codardia e dall'inganno del re e dei suoi marescialli e duchi di Addis Abeba.

C'era suo figlio, tra quei soldati, e lei, disse, non si sarebbe mai più tolta il lutto dai vestiti, dal punto più dolente e indimenticabile delle sue membra, dal suo bisogno di giustizia.

Il coraggio, l'umiltà e la forza di sabbia e di roccia di quella donna ce li ha raccontati Wiesenthal.

Ed anche a lui si pensa su questo lungomare, dove nugoli di ragazze arrivano gioiose e ignare a fotografare e farsi fotografare ai piedi di statue e di cippi ad un re che non conoscono, mentre il vento scompiglia i loro capelli, e sparpaglia i loro sorrisi, le parole.

Agli occhi scuri e quasi insostenibili di Wiesenthal, per tutto ciò che lui era, e a quella donna, quella madre, umile e forte, che sostenne il suo sguardo, e gli domandò e ottenne una promessa di giustizia equanime, anche a ciò si pensa su questo lungomare, non così lontano da Itaca, da Patrasso, dal fondo di quel mare dove era sceso, coi corpi, l'urlo di una e di tutte le madri, ma qui, di questo, non pare esserci memoria, solo i pensieri di ognuno, di ognuna, se vuole.

Sotto il palco, anche là, ci sono stuoli di bottiglie di plastica.

Un attaccapanni trovato vicino aiuta a tirarle fuori dai punti più difficili.

Qualcuna è piena d'acqua e così potrà impedire alle altre di volare via dal cestino e riversarsi di nuovo a terra sotto le raffiche di vento.

Tutt'intorno sono sparse decine e decine di strisce bianche di plastica, che ad una ad una,insieme a pezzi di scottex e a fazzolettini di carta appallottolati, finiscono anch'esse in quella specie di inutili contenitori.

Una comitiva di donne della città cammina e parla di reperti trovati chissà dove.

Se si mostra loro quella spazzatura tenuta in mano e si dice:

«Stamattina invece abbiamo trovato, come tutte le altre mattine, questi reperti», le signore storcono un po' le labbra, leggermente disgustate.

A loro non verrebbe mai in mente di raccogliere quei rifiuti di carta e di plastica, con le mani poi.

Però si pronunciano: «Signora, c'è inciviltà. Siamo incivili, ma comunque guardi che stanno passando quelli della spazzatura».

Quelli della spazzatura infatti fanno un altro giro, ma la spazzola vorticosa sotto le loro macchine continua ad aspirare solo a vanvera e solo dove passa.

E magari dove passa non c'è niente.

Solo polvere.

Sui gradini del mare adesso ci si potrebbe sedere.

Come si sarebbe potuto farlo con tutta quella spazzatura alle spalle!

Una statua ha alle spalle il mare e un essere umano i rifiuti sul selciato, fin lassù, sulle aiuole degli scalini; i rifiuti, i mozziconi di sigarette, a quintali, l'incuria, lo spreco, lo sfoggio inutile,ciò che alle spalle preme come l'indifferenza, lo spergiuro, il dominio tracotante e borghese, murato in sé stesso, dei nemici interni della città, sempre gli stessi.

Spalleggiati, essi, dalla Santa, con le buone o con le cattive, perché, dice la Santa, la Cosa Nuova intercettata al telefono, "che cosa c'entra la politica, qua comandiamo noi".

E ci si potrebbe già lavare le mani, con l'acqua salata, se anche la battigia non fosse invasa da bottiglie, bicchieri, pezzi di metallo, cartoni, fazzoletti di carta per il naso, tovaglioli di carta, lattine, polistirolo.

Non è difficile discendere il gradini del mare anche con una gonna un po' stretta, raccogliere tutta quell'immondizia con le mani, risalire i gradini per andarla a buttare, ridiscendere e risalire ancora.

Poi, finalmente, lavarsi le mani nell'acqua di mare.

Accovacciarsi per aspettare che l'acqua risalga al punto giusto, senza arrivare a bagnare le ballerine e le calze.

Riuscire ancora ad afferrare un sacchetto di plastica, nell'acqua, andarlo a buttare.

Le bagnanti di lato che osservano.

Un anziano signore che procede, pensa che l'acqua la si voglia solo saggiare, ed esorta: «L'acqua oggi è calda, glielo assicuro».

E ci si può sedere ora, sui gradini del mare, inspirare e respirare l'odore forte di sale e di iodio, guardare l'acqua, il bagliore che a mano a mano, con il crescere delle ore, diviene un manto di luce, l'isola che là di fronte da sempre sembra poter essere toccata con un dito.

Il titolo di una canzone di Pino Daniele nelle orecchie, "Chi tene 'o mare".

E che cosa tiene, che cos' ha il mare, tutto quel pattume sulla battigia, che di notte e di giorno entra dentro, che galleggia e poi sprofonda, i pesci che accorrono e mangiano e muoiono, una dea che gli volge le spalle, e quel sorriso falso, duro, quelle occhiate ostili dei nemici interni della città che pensano di governarla per sempre, con il loro spreto, mentre il mare, nel suo risalire, lo dice e lo ridice con la voce dei cieli, anche a quelli che, proprio come il giovane Riina a Palermo sulla strada per Capaci, in corsa in macchina con l'amico, decretano con una euforia di morte: «Ca semu nuautri».

Lo dice e lo ridice il mare, a tutti costoro, ai potenti asserragliati nelle residenze della città che essi non vogliono abbandonare, lasciare libere, lo dice e lo ridice anche agli abitanti, con la voce dei cieli rivolta a Jov, a Giobbe, dal mezzo della tempesta, del turbine: «Dov'eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo se hai discernimento. Chi ha fissato le sue misure, se lo sai, o chi ha tracciato anche una sola linea su di essa? Su che cosa poggiano le sue cavità o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e tutti gli angeli di D-o gridavano di felicità? Chi ha chiuso tra porte il mare mentre erompeva e nasceva dai fianchi e io lo cingevo di nubi, come vesti, di scure nubi come fasce? E poi ho prescritto sopra di esso una legge, ponendovi un chiavistello e porte e ho detto 'fin qui giungerai e non oltre, e qui s'infrangerà l'orgoglio delle tue onde'. E dov'eri tu, in quel momento, dov'eri?».

Così si può stare sedute sui gradini del mare, ora, pensare a che cosa tenga dentro il mare, che cos'abbia.

Pensare all' ingegnere Strologo, ch' era venuto in questa città per aiutare la sua bellezza, per cercare di capire se fosse stato possibile tracciare altrove un percorso per la ferrovia e lasciare libero il mare. E che scomparve, in un momento, in una tenebra non creata da D-o, mentre il reggino Alberto Ziparo, che era un suo amico, che era un funzionario delle ferrovie e che si definiva "un milite involontario nella milizia fascista", restituiva la divisa fascista e mormorava, come risucchiato anch' egli, nell' animo, da quella tenebra, che non poteva, che egli non avrebbe mai più indossato quell' uniforme di oscuro straniamento di un essere umano da un altro.

Alzarsi allora, e riprendere a camminare, sul lungomare, nelle ore del mattino, è come ancora cercarlo, l'ingegnere Strologo, nella traiettoria dello sguardo capace di diventare cupo come le nuvole del principio, e che le ciglia delimitano e il ricordo estende, riaddolcisce, come diceva Rabbì Israel ben Eliezer, il Baal Shem Tov, il padrone del buon nome, che "la salvezza è nel ricordo", nella memoria di ciò che veramente si è, si dev'essere.

Un uomo che ha pescato viene incontro, sorride, dice che ha visto: «Ho visto che raccoglieva le bottiglie, ma lei da dove viene? E la sua fede? Ma allora posso farle qualche domanda?».

E le domande sono quelle stesse, le domande di duemila anni, che neanche vogliono sentire le risposte, che insistono, non chiamano le cose, le lettere con il loro nome, e non è neanche il pescatore che le fa, ma un'educazione arenata anch' essa in convinzioni ansiose, calcate come il piede e lo stivale sopra il cuore.

«È scritto di qua, è scritto di là, ma allora voi non riconoscete la vostra stessa Torà?».

«Signore, non è scritto da nessuna parte, nella Torà. Signore, scusi, anche il mafioso Michele Greco, al Maxiprocesso, minacciava il presidente Giordano con queste interpretazioni e traduzioni della Torà, che anche lui chiamava Bibbia, ma le pare? E invece di impuntarsi, di tornare e ritornare sulla stessa inutile domanda,perché non osserva questo mare, perché non lo riconosce? C'era, fra i milioni, un maestro, signore. Ogni mattino egli cantillava i versi iniziali della Torà, quelli di Bereshit, di Genesi, per i suoi piccoli allievi, perché essi facessero lo stesso, con la buona dizione e la disposizione da favorire nel loro piccolo cuore circonciso.

'Bereshit barà Elokim et ha shamaim ve' et ha'aretz.

Ve' ha'aretz hayetà tohu vavohu ve choshech al-peney tehom

ve ruach Elokim nerachefet al-peney ha maym.

Nell'inizio D-o creò i cieli e la terra, e la terra era sterminata e vuota e le tenebre erano sulla faccia dell'abisso e lo spirito di D-o si librava sulla superficie delle acque'.

E lei sa dirmi, signore, dov'è ora uno di quei maestri, con i suoi piccoli allievi?

Glielo dico io, se permette.

Egli è ancora in quelle parole, nella loro cantillazione che si è staccata da terra mentre i nemici di D-o lo torturavano e uccidevano, mentre torturavano e uccidevano i bambini che imparavano da lui.

La sua voce, come lo spirito di D-o, aleggia anche sulla superficie di queste acque.

Le guardi, invece di farmi le solite inutili domande di duemila anni.

Io sono nata nella fede dei miei avi, che già in Spagna si lasciavano bruciare, pur di non abiurare.

E ci resterò, anche per quei maestri, per quei bambini, per quel cantillare.

E lei non si dia pena, lasci stare, guardi piuttosto il mare, lo riconosca lei, vi riconosca lei il ruach Elokim, lo spirito di D-o, e pensi, piuttosto, mentre pesca, ai nemici della città, a quelli che si recano nei loro santuari, che danno sempre il via alle processioni e alle sagre, mentre lasciano che si accumuli sulla battigia del mare questo che i pesci del mare poi mangeranno, lentamente, morendo, e alla città offrono solo i loro comitati d'affare, e statue e cippi e finti modelli e primavere.

E la fine dell'estate, come dicono i Maestri del talmud, "è più dura dell'estate stessa"».

L'uomo allora sorride, quella puntellatura e ripetizione ossessiva delle domande, da serpente primevo, lo lascia, i suoi occhi acquistano veli di lacrime e di delicatezza: «Sa, io pesco poco, e non è per me. I pesci li regalo. Che D-o la benedica».

«Anche a lei. In ebraico si dice 'Chi benedice è benedetto, ha mevarech hu yevarech'».

Così si prosegue, sul lungomare, si torna indietro, verso quella stazione, quei binari cui l'ingegnere Strologo voleva riuscire a trovare un altrove, per non rovinare il mare.

Questo mare, questo lungomare dove niente ricorda il suo nome circondato e fatto svanire, e che invece a sua volta richiama gli astronomi ebrei e i loro i trattati, le loro discussioni sul calcolo dei punti zero, delle latitudini e delle longitudini, il loro studio del corpo umano e dei pianeti, le connessioni.

E neanche di essi, qui, l'ombra anche solo accennata di una memoria, come se non fossero mai passati, mai venuti, nei secoli; come se non avessero essi dispiegato il loro sguardo denso, il loro mantello sull' acqua, nel tempo.

Qui solo la rievocazione mitologica dell'urlo delle nereidi, che può essere, in fondo, quello di una madre, di tutte le madri di Cefalonia.

E alle steli dedicate ai poeti, agli scrittori, a Pascoli, ad Alvaro, all'eco "delle onde greche e latine" e del monito inascoltato alla rettitudine relegato fra le radici degli alberi, sono stati affiancati, per stemperare e svilire la storia, i monumenti a "Reggio anni '70", a quel malagma persistente con il quale ancora oggi cementare le opposte ideologie, gli interessi, l'anathema, l'offerta malefica alla Santa cui costringere la città.

E se sembra quasi di scorgere, nella luce, il passo rassegnato di Corrado Alvaro, come se egli andasse a sedersi su uno dei sedili di pietra bianca a guardare il mare, lo stesso mare, a rimuginare quel suo pensiero di allora, "la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere con onestà sia inutile", la visione reale dà ragione ai versi di Pascoli: «Qui, dove è stata distrutta la storia, resta la poesia».

Anche quella che un anziano professore e poeta, Giuseppe Morabito, lascia su questo lungomare, dalla parte delle aiuole, per Pascoli e per Vitrioli:

Proteggi o Giovanni/ vigilando custode/insieme a Diego/ la parte estrema dell'Ausonia/da qui o vati allontanate/ con ferma autorità/ l'oscura barbarie/ qualora incomba sulle natie virtù.

E a questi versi viene da sorridere, come per l'amore e per l'ingenuità dell'autore, per la sua colta lingua ausonica.

I nemici interni della città amano commissionare steli, apporle ufficialmente, assicurare così d'amarla la città, d'arricchirla e abbellirla, mentre il basalto scompare dalle strade, della ferma autorità dei vati essi non sanno che farsene in verità, l'oscura barbarie della Santa ancora incombe sulla città e sulle sue "natie virtù", ed i suoi figli e nipoti divulgano il loro linguaggio spaccone ed empio, "non sei degno di guardarmi negli occhi, cuntrastu, l'omini senza culùri o su' sbirri o su' tradituri".

Le aiuole sono invase anch' esse da carte e bottiglie di plastica, e poiché distano sia pure poco dal mare, non si ha l'animo di chinarsi e raccogliere tutto, quella è veramente troppa spazzatura.

I giganti di Rabarama, in mezzo, giustappunto davanti alla villa Zerbi, con la pelle cangiante del serpente del giardino dell'Eden e il loro ricordo della felicità perduta, la loro aspirazione a perdere ora quella pelle, a rivestire quella antica di luce dell'Adam Kadmon, dell'essere umano primordiale in armonia con D-o, questo forse vuole dire a fatica la loro scultrice quando parla di ricerca dell'identità che essi covano dentro, con quella smisurata angoscia curva alla quale le aiuole non s'abituano.

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E si sa che i padroni della città amano far allestire mostre, anche quelle permanenti sulle aiuole, così da dire che la città è un modello culturale vincente, mentre là in fondo al mare, nello scintillare del mare, ora che il giorno è pieno e il sole abbaglia, si può riuscire a intravedere il guizzo della balena di Melville, del livyatàn biblico che nel fondo freddo del mare nuota mentre i cieli ammoniscono ancora Jov, Giobbe, l'uomo della terra di Uz che era stato sincero, giusto, timoroso dei cieli, che rifuggiva dal male, ma che cercò, nella disgrazia, di assolvere sé stesso:

« Puoi tu prendere il livyatàn all' amo, e comprimere la sua lingua con una corda, puoi mettergli un gancio nelle narici e forargli la mascella con un uncino? Ti offrirà forse lui molte suppliche o ti rivolgerà dolci parole? Stipulerà forse con te un'alleanza e tu lo avrai forse come schiavo a lungo? Giocherai forse con lui come con un cardellino e lo legherai come per un dono alle tue ragazze? Sazierai il tuo desiderio di far tende della sua pelle e un'ombra di pesci della sua testa? Ecco, la tua speranza è vana».

Ma i nemici interni della città, che certo non hanno le caratteristiche di Giobbe, non pensano a questo, non hanno tempo e modo, trincerati nella loro boria , nei loro abiti di professionisti, d'udire la voce, il monito dei cieli, e lo starnuto del leviatano che irradia luce, d'accorgersi dei suoi movimenti, del suo guizzo sulla superficie del mare, delle sue palpebre come d'aurora.

Immaginarsi poi la Santa, impegnata com'è a intessere relazioni nelle cupole, a sentirsi invincibile, a impartire ordini, a insegnare ai nipoti la tecnica per intimidire i giornalisti con papillon che la città l'amano, invece, e di cui vengono a raccontare l'assedio, la prigionia.

Si ridiscende la scalinata del mare, quella di marmo nero.

Due turiste, madre e figlia, si dicono di volta in volta: «Guarda che meraviglia, guarda».

E la figlia dice alla madre: «Certo non è lo stesso mare di...».

Sfugge l'ultima parola.

E allora lo si chiede sorridendo: «Lo stesso mare di dove?».

«Lo stesso mare di Rimini».

E il sorriso si apre di più, si dice:

«Dai, che paragone è?».

E le due donne sorridono, e fotografano, e sostano, sembrano calme e felici.

«Qua ci sono tutte le sfumature del colore del mare, l'azzurro, il blu, il verde, persino il viola, davvero una meraviglia», dicono.

E andando avanti ci si chiede ancora di quale altro mare sia lo stesso, questo, a quale altro lungomare ci fa pensare: alla tayelet, la passeggiata a mare di casa.

Un po', solo un po', perché la tayelet è davvero più estesa ed ampia, così tanto di più, e c'è là quella storia unica, di profughi ebrei che non approdavano a un altro mare, spesso tuffandosi dalle navi prima ancora dell'attracco, sotto il fuoco degli inglesi e il rancore e il rifiuto, i fucili stessi degli arabi, ma al mare della loro memoria, della terra mai lasciata nel cuore, nella mente, nella ripetizione di non dimenticare e del ritorno.

Ma c'è similitudine, di luce, d'intensità, di colore d'acque e d'odore di mare, di palme, di acciottolati, e una cantica di Chaim Nachmann Bialik che si può avvertire mentre risale alle spalle, come su per le vertebre, sugli scalini davanti a un pezzo di spiaggia con le barche dipinte, un pescatore che vende il suo pescato in un angolo, donne che scendono gli scalini per andare a comprarlo, il ristorante chiuso per mafia.

"Hachnissini tachat knafech/ vehe'i li em va'achot/ vahi chekech miklat roshi/

ken tfilotai hanidachot/ Uv'et rachamim bein hasmashot/Sachì ve'agal sod yissuray/

Omrim yesh ba olam ne'urim/Eichan ne'uray?/Ve od echad raz lach etvadeh/

Nafshì nisrefà balehavà/Omrim ahavà

yesh ba olam/ma zot ahavà?/

Accoglimi sotto le tue ali, sii per me madre e sorella, ed i tuoi fianchi saranno il rifugio dei miei pensieri, il nido delle mie preghiere più remote. E in un tempo di sera e di misericordia parlami, ed io rivelerò il segreto dei miei tormenti. Dicono che vi sia giovinezza nel mondo, dov'è dunque la mia giovinezza? E ti svelerò ancora un segreto. La mia anima arde nella fiamma.

Dicono che nel mondo vi sia amore, e che cos'è allora quest'amore?".

Queste parole può recitare, cantare, anche in questa città, davanti a questo mare, per sua madre e per una donna che c'è o verrà, un uomo giovane che qui si batte, che fronteggia il male e non ha paura, se non a sera, forse, nelle ore in cui a lui stesso si rivelano i segreti, la fiamma della sua anima, e un'onda di rachamim, di misericordia, per sé stesso.

E intanto la poesia di Bialik, del poeta e figlio d'Israele, sale alle spalle, come su per le vertebre, in una similitudine di luce, di sirene, di stelle marine sulla spiaggia bianca, di piante d'aloe e d'agave e alberi generosi che danno freschezza e ombra.

Anche in quest'angolo pezzi di carta a iosa si sollevano per il vento, e bottiglie rotolano, e le volanti passano piano, da una panchina provengono le frasi in spagnolo di un ragazzo e una ragazza in viaggio.

E la lingua della mente e dell'anima, davanti al mare e all'isola di Sicilia, diviene allora quella di Sefaràd, della Spagna giudaica, delle donne e dei loro segreti d'amore disvelati, della baldanza con cui esse erano capaci di annegare, andare in fondo al mare alla ricerca delle perle e del livyiatan che non farà loro del male, non a loro:

"Dame un grano de mazal y échame a las fundinas de la mar, dammi un po' di fortuna e buttami pure allora in fondo al mare".

Così si risale su per le scale del mare, si ritorna a cercare quella scritta, quel nome di Giacomo Matteotti sul lungomare, quel nome, quel tributo per l'uomo ucciso da una banda di assassini, che non si può accostare agli eredi di quelli, nelle arene e nelle aiuole, nel via vai di turisti e di gente.

Versi di Borges possono venire in mente per quel nome di Matteotti nella via e una stretta, qualcosa nel cuore, negli occhi per la commozione.

"Todo se lo robamos, no le dejamos ni un color ni una sílaba, aquí está el patio que ya no comparten sus ojos, allì la acera donde acechó su esperanza.

Gli rubammo tutto, non gli lasciammo né un colore né una sillaba, qui è il patio di cui più non partecipano i suoi occhi, lì il marciapiede dove si appostava la sua speranza".

E come può il resto di una città non provare il "remordimiento", il rimorso dei versi di Borges, convivere ancora con gli assassini, con i filibustieri del principe nero, i traghettatori di Freda, le bande dei pirati della Santa a cui i nemici della città, ognuno dal canto suo, hanno consegnato le chiavi, lasciata aperta la via della depredazione, del saccheggio, della distruzione, dello stanziamento nel territorio con i loro orribili palazzoni di cemento, le loro terribili ville, le loro armi feroci, il loro appalto vorace cui nulla sfugge, i loro traffici di droga e di morte, mentre "nelle tenebre forzano le dimore e di giorno se ne stanno nascosti", anche se " in nessuna tenebra, in nessuna oscurità, riusciranno infine a nascondersi".

I nemici della città guardano torvo, con malcelato disprezzo e persino con un sorriso di circostanza l'intruso o l'intrusa che si permette, su di loro, anche una sola parola di sconcerto.

Vorrebbero invitarli a farsi gli affari loro, ma essi non sono pirati, no.

Sono i pirati della Santa che insegnano a figli e nipoti la minaccia tradizionale indirizzata giorni fa a un giornalista con papillon,"apri gli occhi che a chiuderli non ci vuole niente".

E ci sono tanti avvocati in città, più avvocati, forse, che nel mondo; squisitamente essi affermano il diritto dei mafiosi a essere rappresentati e difesi dai migliori penalisti.

Tanti dei nemici stessi della città sono avvocati, governano, e a loro verrebbe da chiedere, con le parole di Elihu nel libro di Giobbe: «Può mai governare chi in realtà odia il diritto?».

Poi c'è un giudice, pochi giudici, un procuratore nella città, lui sì, come nelle vite parallele plutarchiane, con un nome di navigatore, come un Temistocle che mandi sobri ma veementi messaggi alla città arroccata di voltarsi di nuovo verso il mare, di sconfiggere i pirati,di riconquistare un animo, una mentalità e una pratica di liberazione, e la gloria delle leggi.

C'è un giudice, nella città, e altri giudici soli, e forze dell'ordine e soldati, e la prospettiva morale e profonda di un poliziotto che liberava i quartieri "dall'arroganza e dalla pervicacia della 'ndrangheta".

E imprenditori che non ne vogliono sapere della tassa dei pirati, anche se questo costa abbandono e viltà da parte di altri, e povertà, e l'abitudine, a poco a poco, di chi era accorso.

C'è uno chef che dicono sia un uomo speciale e anche lui di pizzo non ha voluto sapere, come già suo padre, meglio quel "coraggio che rende liberi", davanti al mare dove certo si saprà preparare il pan di Spagna perfetto, e un gelato di zenzero e more tale da richiamare las fadas, le fate benevole delle cerimonie sefardite per l'imposizione del nome alle bambine, per proteggerle da Lilith e dagli spiriti cattivi, al tempo dell'Inquisizione, quando il carro della morte del monaco di Torquemada arrivava e incuteva terrore, ed era lo spirito cattivo, lo spirito del male.

Uno chef e la sua fata morgana ottica sulle acque, mentre quella degli incappucciati della città ha il volto orrido dei loro misfatti, delle loro intese, delle loro riunioni nel "locale" dove ritrovarsi tutti insieme, nobili, pirati ed avvocati, a mascherare quella faccia dura, quel piano perverso per divorare i luoghi, per attivare al più presto i mastodonti dello Stretto e la leggerezza, la noncuranza di chi vi affluisce a comprare, pagando anche così la tassa, la jizya della connivenza, dell'assenso, della dhimmitudine di mafia.

E scrittori, uomini e donne, nella città, che serbano nelle notti profumate di gelso la loro paura, e nei giorni, negli anni, non rinunciano a scavare, come le gocce d'acqua, una roccia di verità.

Camminando si sente l'asprezza dolce degli oleandri, nelle orecchie ancora quelle parole in giudeo-spagnolo, in ladino, professate dalle donne d'Israele davanti ai mari, alla vita di impastare il pane del sabato, di allestire tavole di lino, di fiori e d'argento, un sentore di pena, nell' aria, da ignorare quella volta od un'altra..."dame un grano de mazal y échame a las fundinas de la mar...".

E quel mare, lo stesso mare, è là, coi suoi tesori, la sua lezione inascoltata, il suo odore, la luce profusa in esso.

A poco a poco ci si accorge di giungere, di arrivare alla giudecca, allo sbocco sulla costa dell'antico quartiere ebraico dalla porta Anzana.

Una targa di pietà e gratitudine commemora la cacciata degli ebrei il 25 luglio del 1511.

C'è silenzio, solitudine, secchezza di piante nei vasi, il tapirulan di plastica rossa del modello Reggio, che ha squarciato la via, che ora è fermo e pieno di bottiglie e rifiuti anch' esso.

Ma c'è l'odore del mare, e luce e respiro, e come un fragore di drappi di seta sbattuti dai balconi, e anche quella scia di tinture per la seta che ancora si diffonde dai laboratori del tempo.

E dentro le case divenute altre quella perseveranza ancora di donne della Spagna giudaica, del tempo prima della fuga, un'altra ancora, ma "tanto está la roza en el rozal asta ke viene su mazal, tanto sta la rosa nel roseto, finché non arriva la sua fortuna".

Un piccolo palazzo è ora un bed and breakfast e si chiama la luminosa, come la fontana del lungomare in corrispondenza con la giudecca stessa, come il brusìo degli astronomi ebrei curvi sulle carte, e il lavoro meticoloso del tipografo Avhram ben Gartòn sui caratteri di un commento di Rabbì Shlomo ben Yitzchaq al Chumash, al Pentateuco, da stampare per la prima volta al mondo, in ebraico, nel 1475, proprio qui, nel quartiere, nella città che dovrebbe richiamare nel cuore i suoi astronomi, i suoi medici, i suoi pii stampatori, i suoi mercanti di sete e le donne d'acqua di rose e di mare, e cacciare invece per sempre i pirati divenuti mammmasantissima in cachemire e di buone letture, obbligare alla restituzione delle chiavi i suoi nemici veri che reputano d'essere il bene borghese della città, il perno legittimo di un sistema che sperano di camuffare e perpetuare, di proteggere dagli intrusi con il loro sorriso freddo che fa finta di non conoscere lo spettro da cui proviene, l'accordo anche tacito con la Santa cui da sempre sono votati.

Ci si avvicina per spiarlo, il piccolo antico palazzo dai balconi di ferro, come se si potesse sospingere con le mani le porte ed entrare e ritrovare tutto com' era in quel tempo, molto prima che il tremore insistente della terra e la reazione del mare seppellissero la giudecca vera oramai spogliata della sua storia, del palpitare della presenza.

E quasi si spingono davvero le mani contro il portone della kaza, di una casa avita, che non è qua ma è come se lo fosse per la stessa atmosfera, per quella pena dolce dei secoli, infissa nel cuore delle generazioni che un canto, un altro, può scardinare: "Avre, avre, tu puerta cerrada, domandi por tu hermozura, como te la dio el D-o, la hermozura tuya es pura, la merezco solo yo... Apri, apri, la porta serrata del tuo cuore, io domando la tua bellezza, come te la diede D-o, la tua bellezza che è pura, che voglio meritare solo io".

Ci si siede sul bordo di pietra delle aiuole disseccate e da là si guarda il mare lucente, s'immagina quella città locrese d'Atalante scissa e inabissata, gli astronomi ebrei e quel loro calcolo dei punti zero, di latitudini e longitudini, di fede nel Santo Benedetto e d'ingegno.

E il livyatàn che guizza e sale e risale con le sue palpebre d'aurora aperte e vigili sui potenti della città che lo ignorano, come ignorano la voce dei cieli, i tempi, la loro ineludibile necessità, mentre si riuniscono nei consigli metropolitani a mettere in scena il loro repertorio di apparenti diatribe, e la parola 'ndrangheta rimane e muta in un regno non univoco di proci, di μνηστηρες, pretendenti le cui forze il simulacro della dea Athena dal lungomare non è in grado di indebolire, fiaccare, annullare.

Quando già i giorni, le settimane sono passate, e un tremendo terremoto ha devastato paesi, esistenze, in Centro Italia, lo sguardo sul mare è anche di dolore per questo, così è il ritorno alla giudecca a sedersi nello stesso punto, in silenzio, piano, prima di ripartire.

Quel discorso di Rabbì Pedatzur, che forse anche lui ripensa ora a un lungomare, a Tripoli, dove anch' egli da bambino, prima di dover fuggire, guardava nell'acqua del mare trasparente e chiara, azzurra, per vedere il livyatàn affiorare e promettergli una porzione dell'era a venire, il banchetto dell' olam ha-ba, del mondo di giustizia che verrà.

E che anche adesso, innanzi alla catastrofe di un terremoto, esorta alla stessa riflessione, "quando succedono cose come queste bisogna guardarsi dentro".

Guardare a sé stessi, e poi sì, verso il mare, a interrogarsi, e a interrogare, con il monito dei cieli, i malvagi: «Sei mai giunto fino alle chiuse del mare e hai mai camminato nella ricerca delle sue profondità?

Ti sono state indicate le porte della morte e hai mai visto i cancelli della sua ombra?

Conosci tu veramente e comprendi le ampiezze della terra? Dillo, se lo sai.

Di', qual è la via dove abita la luce e dove hanno dimora le tenebre, perché tu le conduca ai loro confini e capisca quale sia la loro dimora?».

Ma i potenti, smilzi o ridanciani, i nemici della città, non odono e non badano che alla sicumera della loro irresponsabilità, non sentono in loro l'immoralità, il verso borgesiano che li chiama in causa e per loro parla, in luogo delle menzogne e dei proclami:

«Nos hemos repartido como ladrones el asombro caudal de noches y días. Ci siamo spartiti come ladri il sorprendente profluvio delle notti e dei giorni».

Non per questo essi potranno sfuggire, come i pirati, come il mutevole assetto della Santa, uguale a se stesso, e il marcio, la violenza che lo muove, mentre il mare reclama, con la voce dei cieli, con il suo lucore, ristabilimento e coscienza, il suo confine, le leggi, la sua memoria vera.