500 euro a un agente della Penitenziaria per un telefono cellulare: così il boss Cortese reggeva i Serraino dal carcere

polizia penitenziariadi Claudio Cordova - Cinquecento euro per corrompere un agente della Polizia Penitenziaria del carcere di Torino al fine di poter introdurre un cellulare per conversare amabilmente con la moglie, Stefania Pitasi, ma, soprattutto, per impartire ordini agli affiliati fuori dalla galera. Così il 40enne Maurizio Cortese, considerato dagli inquirenti a capo della storica cosca Serraino, avrebbe continuato a tenere le redini del clan, nonostante la detenzione, dopo la condanna definitiva rimediata nel processo "Epiloco".

Dagli atti di indagine "Pedigree" emergono moltissimi elementi che dimostrano che Cortese, grazie alla corruzione di un agente di polizia penitenziaria e al costante supporto dei sodali Antonino Barbaro, Antonino Filocamo, Salvatore Paolo De Lorenzo, il suocero Paolo Pitasi e, appunto, la moglie Stefania Pitasi, aveva a disposizione telefoni cellulari dentro la sua cella tramite i quali comunicava con la moglie e con i membri della sua cosca.

Il dato inizia a profilarsi nel gennaio 2019, allorché venivano captati alcuni messaggi "whatsapp" nei quali Stefania Pitasi, figlia di Paolo, storico elemento di spicco del clan Serraino, fa riferimento ad una scheda sim, formalmente intestata ad una cittadina extracomunitaria, di recente attivazione.

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L'ipotesi – sempre più concreta - che Maurizio Cortese e la propria moglie Stefania Pitasi intrattenessero comunicazioni riservate, attraverso l'utilizzo di alcune schede "citofono" e soprattutto tramite un telefono illegalmente introdotto all'interno del carcere, trovava, a distanza di qualche giorno, effettivo e definitivo riscontro, grazie alle intercettazioni nel frattempo disposte sulle utenze in questione. Viene infatti registrata la prima conversazione tra Stefania Pitasi e il marito detenuto, cui ne seguivano altre (sia con la Pitasi che con gli ulteriori affiliati), tutte funzionali a consentire al boss di San Sperato di esercitare il suo potere di 'ndrangheta nonostante la carcerazione.

Il 10 marzo 2019 viene registrata la prima conversazione intercorsa tra i coniugi Cortese-Pitasi e da quel giorno i due continueranno a sentirsi con cadenza quotidiana. Oltre che parlare con la moglie, Cortese, nel corso di questo periodo, intrattiene conversazioni anche con altri soggetti affiliati alla cosca Serraino. Conversazioni, dalle quali si ricavano ulteriori riscontri sulle capacità dell'uomo, passato da nuova leva a reggente del clan, di gestire, anche da detenuto, esercizi commerciali di interesse del sodalizio criminale, quali rivendite di frutta, di pane e bar. In tutto questo e, per come ampiamente visto, Cortese si dimostra abile nell'usare un linguaggio criptico nelle conversazioni telefoniche, utilizzando spesso riferimenti a cani, accoppiamenti ed allevamenti, volendo invero – attraverso tali espressioni – fornire alla propria moglie ed agli affiliati precise indicazioni.

Cortese non solo sarebbe riuscito ad impartire direttive ai membri della sua cosca ma anche a gestire molte attività illecite della cosca, tra le quali il compimento di atti intimidatori e danneggiamenti, come la tentata estorsione nei confronti del bar "Dolci Pensieri" e i danneggiamenti ai danni del bar "Mary Kate".

L'attività investigativa avrebbe permesso di accertare come Maurizio Cortese fosse riuscito ad ottenere il telefono cellulare grazie alla collaborazione di almeno altri due detenuti – Cosimo Modugno e Domenico Remini - e sfruttando la complicità di un agente della Polizia Penitenziaria, non identificato nel corso delle indagini. Inizialmente Cortese condivide il cellulare con Modugno e Remini, poi manifesta alla moglie l'intenzione di comprare un telefono da utilizzare in via esclusiva, senza la necessità di condividerlo con gli altri detenuti.

Dalle parole di Cortese si coglie come non fosse affatto complicato introdurre l'apparecchio all'interno della casa circondariale: l'unico vero problema era, piuttosto, individuare un sito sicuro ove nasconderlo [CORTESE: Me lo prendo pure io il telefono PITASI: Ah, te lo prendi? CORTESE: Ora vediamo ora ci sto vedendo dove lo posso mettere (...) mettere pure la sera, capito?!].

Il piano per l'acquisito di un telefono "personale" per Cortese si concretizza nei giorni successivi.

Alcune settimane dopo, l'uomo riferisce alla moglie di una perquisizione che gli operatori della Polizia Penitenziaria avevano effettuato nella cella di Modugno e Remini, senza però che gli agenti fossero riusciti a trovare nulla, specificando che i due erano stati messi in isolamento "M'immagino... ahia, aia, aia... e a quelli praticamente nella sezione non li hanno portati poi?... Gli hanno smontato tutta la cella, mensole, cose, si sono portati tutto... Speriamo che non se la cantino ora questi... Questi cantano, questi... questi fa, Domenico non sa niente, gli menano uno schiaffo, Domenico dice tutto!". Il giorno dopo, riprendendo il discorso affrontato il giorno precedente riferisce alla moglie che gli stessi erano stati trovati in possesso di un telefono cellulare del tipo I-PHONE.

Nell'aprile del 2009 è lo stesso Cortese a riferire come fosse riuscito ad introdurre all'interno della casa circondariale l'apparecchio telefonico. Dialogando con Giuseppe Pitasi, il detenuto descrive l'ambiente carcerario come pieno di "guardie corrotte" e sottolineava come uno degli agenti penitenziari (di origine calabrese), dietro pagamento di 500 euro, si fosse prestato a consegnargli abusivamente il telefono [CORTESE: Sai che brutto questo carcere dove sono, bruttissimo (...) pure di guardie corrotte cose con 500 euro mi ha portato il telefono (...) Questo passa e mi fa hai bisogno qualcosa? hai bisogno qualcosa? Di te mi fido che sei calabrese. Gli ho detto io porta un telefono].